“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, comincia così la nostra Costituzione e già col suo primo articolo ci mostra il senso profondo e il valore del lavoro per la nostra società, mettendolo, appunto, a fondamento del nostro sistema democratico.
Il lavoro non è inteso solamente come la produzione di beni e servizi, non è solo il mezzo per la crescita e economica e sociale, ma è il luogo dove il cittadino esercita i suoi talenti, esprime le sue capacità, contribuisce alla sua crescita personale e a quella dell’intera società. Un lavoro, quindi, che non è tale se non è intriso di dignità, altrimenti sarebbe solo sfruttamento e ingiustizia.
Se così è per l’Italia, ancora più radicato, se possibile, è il valore del lavoro nella storia della nostra città. Senza il lavoro di generazioni di donne e uomini Monfalcone non sarebbe quella che è diventata. Ciò che un tempo era un piccolissimo borgo di pescatori e contadini si è ingrandito, è cresciuto, è diventato la casa di tante persone che qui hanno realizzato la loro affermazione sociale e costruito il futuro per le generazioni successive. Certo, non è stato tutto sereno e privo di contraddizioni. Ci sono volute lunghe lotte perché il lavoro a Monfalcone non sia sfruttamento, insicurezza e malattie professionali. Battaglie nelle quali si sono costruiti sindacati, partiti, una coscienza sociale e civile. Il lavoro a Monfalcone ha voluto dire la nascita dell’associazionismo, della promozione della cultura, è stato il motore di una serie di straordinarie trasformazioni che ci hanno portato a essere una società moderna, civile e multietnica.
Se il lavoro è così importante, così profondo e costitutivo del codice genetico della nostra città, dobbiamo allora chiederci com’è il lavoro oggi a Monfalcone? Come si è trasformato? Qual è il suo contributo al nostro progresso.
Non possiamo certo nasconderci di come il lavoro sia stato profondamente colpito dalle tre crisi che ci hanno investito negli ultimi anni: la crisi economica, prima, la pandemia poi e, oggi, la terribile guerra in Ucraina, i cui effetti non tarderanno a farsi sentire. Ma se queste sono vicende degli ultimi anni, è almeno qualche decennio che il mondo del lavoro e, in particolare, quello della manifattura, ha avuto le più radicali trasformazioni. Negli anni l’equilibrio tra capitale e lavoro, il patto che nelle nostre società occidentali legava insieme la libertà d’impresa e l’intervento dello Stato come redistributore della ricchezza si è rotto, e tutto in favore del capitale. Il lavoro è diventato esclusivamente merce: è stato frammentato, precarizzato, sfruttato, diventando uno strumento quasi esclusivo del profitto di alcuni e non più il mezzo per molti di accrescere sul piano sociale. La nostra città ha così vissuto in modo serissimo queste trasformazioni, cambiando essa stessa.
Il cantiere navale è un caso di scuola: negli anni la grande fabbrica, quella che garantiva occupazione al territorio, che consentiva alle famiglie non solo di avere un sostentamento ma di consentire alle generazioni successive di migliorare la propria condizione sociale, culturale e materiale, è diventata una macchina produttiva lontana dal territorio, dove il lavoro è sempre più insicuro e precario, dove mancano la formazione professionale e le prospettive di carriera. Oggi gran parte del lavoro dell’azienda è stato esternalizzato a una miriade di piccole aziende, alcune delle quali lavorano in modo precario con fenomeni di sfruttamento che sono spesso oggetto di indagini della magistratura. Su questo, purtroppo, non si vedono segnali forti di cambio di strategia da parte di Fincantieri. Parallelamente a queste trasformazioni sta venendo sempre meno il ruolo sociale dell’impresa. La fabbrica investe sempre meno sul territorio. A fronte di un forte peso sul tessuto sociale prodotto dai fenomeni migratori, da una condizione sociale difficile generata dalla precarietà lavorativa e da retribuzioni troppo basse, è il Comune che deve accollarsi gli interventi di aiuto e sostegno sociale. Anche sul piano della viabilità e dell’ambiente gli interventi dell’azienda sono troppo pochi e tardivi. In questi anni abbiamo assistito a piccole mance, a interventi spot da parte di Fincantieri (come la scuola materna in mezzo al traffico), buoni per pulirsi la coscienza, dare un trofeo alla sindaca da esibire, ma assai lontani da un vero intervento di natura sociale utile per il territorio. Mentre la sindaca minacciava sfracelli, l’azienda continuava imperterrita nella sua strategia, limitandosi, di tanto in tanto, a qualche piccolo contributo. Insomma, non possiamo permetterci altri cinque anni del genere, rischiamo che il tessuto sociale cittadino salti in aria. Il Comune deve avere invece un suo protagonismo concreto, deve essere un interlocutore dell’azienda e portare le istanze cittadina dal vero proprietario di fincantieri: la Stato. Non è più tempo di balletti con l’amministratore delegato di turno e nemmeno delle chiacchiere buone per qualche articolo sul giornale. Monfalcone deve aprire una vertenza vera, forte, sul ruolo e l’impatto di Fincantieri in città e su come l’azienda deve assumersi le sue reponsabilità sociali.
Negli ultimi anni la crisi economica e il Covid hanno prodotto un forte aumento della disoccupazione. Spesso essa ha colpito le persone non più giovani e con difficoltà nella ricollocazione professionale. Su questo dramma è necessario un intervento che affronti il problema da diversi aspetti: dando aiuti immediati, assistenza, e costruendo percorsi formativi e di riqualificazione. Poco di questo è stato fatto e pochissimo ha fatto il Comune. L’unica iniziativa che ricordo è stata una penosissima esibizione in piazza, assai poco rispettosa della dignità delle persone, dove i disoccupati sono stati chiamati dall’amministrazione comunale per essere “messi in contatto con le aziende”. Nulla sappiamo di quanti abbiano realmente trovato lavoro, sappiamo bene, invece, che esibizioni di questo tipo sono servite solo alla permanente campagna elettorale della nostra sindaca.
Per quanto riguarda i giovani, invece, è evidente che qui il problema riguarda le giuste retribuzioni e la stabilità lavorativa. Qui è fondamentale il ruolo della scuola e della formazione, altri settori dove il Comune ha da tempo rinunciato a avere un ruolo di rilievo.
Naturalmente quando parlo di lavoro non mi riferisco solo al lavoro in fabbrica, si può essere benissimo precari e sfruttati a lavorare nella ristorazione, come in un ufficio, davanti a un computer o a fare le pulizie. Mi riferisco anche a un ascensore sociale che si è inceppato. Proprio qui, a Monfalcone, generazioni di operai si sono sacrificati per garantire una istruzione superiore ai loro figli. Oggi, per una famiglia operaria, un figlio all’università è diventato un sogno irrealizzabile. Mi riferisco, anche, ai fenomeni di “lavoro nero”, ancora troppo presenti e diffusi in diversi ambiti e che meriterebbero un’azione più incisiva, maggiori controlli e, soprattutto, una sanzione sociale che dovrebbe partire proprio da chi ha responsabilità amministrative e politiche.
Ci sarebbe moltissimo da dire, voglio però aggiungere ancora un punto: la sicurezza sul lavoro. Negli anni in Italia assistiamo a un continuo e intollerabile stillicidio di morti e infortuni sul lavoro e Monfalcone non è certo un’isola felice, anzi. Non bastano le lamentazioni, i gesti simbolici e le proteste che durano lo spazio di qualche giorno, ci deve essere, anche da parte dell’amministrazione comunale, una richiesta pressante di più risorse per i controlli e per gli adeguamenti alle normative. Di lavoro non si deve morire, mai.
Sulle condizioni del lavoro, le sue retribuzioni, la sicurezza e la stabilità, si gioca il futuro di Monfalcone, se non invertiamo la rotta, rischiamo di vedere una città sempre più impoverita e sfiduciata, dove i figli avranno meno speranze e opportunità dei padri, dove le donne non raggiungeranno la giusta parità di trattamento, dove le lotte di razza e di religione sostituiranno quelle per la giustizia sociale. Sul tema del lavoro si deciderà se Monfalcone imboccherà la via del futuro e del progresso o di un triste declino.
Per questo ci vuole una amministrazione diversa, attenta, incisiva, che si dedichi a tutta la città e a non solo a promuovere sé stessa. Ci vuole un impegno costante, quotidiano, non scrivere documenti buoni per una foto in municipio che, redatti a fine mandato, anno solo lo stucchevole sapore di campagna elettorale. Oggi purtroppo ci ricordano solo perché siamo la città dove chi esce in tuta da lavoro viene multato, dobbiamo tornare a essere quelli che hanno reso vivo quel primo articolo della nostra Costituzione che sta a fondamento del nostro vivere civile.
Saremo insieme in piazza a festeggiare il I maggio. Per dare gambe a quello che celebreremo bisognerà, recandosi alle urne, sancire un cambio radicale dell’amministrazione cittadina. Cambiare amministratori per averne di nuovi che credono in una città migliore dove migliore sia il lavoro: sicuro, stabile e ben retribuito.
Un buon I maggio a tutti.